Il fatto politico internazionale

In America 2.500 marce contro Trump: «Non vogliamo un re»

La protesta clamorosa e dilagante contro quello che gli organizzatori hanno definito "l'autoritarismo" del presidente americano. "Pensa che il suo potere sia assoluto. Ma in America non abbiamo re e non ci tireremo indietro di fronte al caos, alla corruzione e alla crudeltà"

Il Corriere Redazione

18 Ottobre 2025 - 21:14

proteste contro trump negli usa, lo slogan “no kings” e il braccio di ferro sulla guardia nazionale

Da New York a Los Angeles passando per la capitale Washington e le città nel mirino dell'amministrazione per migranti e criminalità, milioni di americani sono scesi nelle strade per protestare contro Donald Trump. "No kings", "non vogliamo re", lo slogan scritto su decine di migliaia di cartelli e striscioni agitati dai manifestanti in tutti gli Stati Uniti.



UN PAESE IN PIAZZA: IL GRIDO “NO KINGS” SCUOTE GLI STATI UNITI
Da New York a Los Angeles, passando per Washington, l’immagine che arriva dagli Stati Uniti è quella di un Paese in movimento, attraversato da un’onda di protesta che non accenna a ridursi. Milioni di americani sono scesi in strada per dire “No kings”, “non vogliamo re”, parole scolpite su decine di migliaia di cartelli e striscioni. Gli organizzatori parlano senza giri di parole di “autoritarismo” e accusano il presidente di ritenere “assoluto” il proprio potere. “In America non abbiamo re e non ci tireremo indietro di fronte al caos, alla corruzione e alla crudeltà”, si legge sui loro canali. È un’accusa grave, che va al cuore dell’immaginario civico americano: la Repubblica nata dal rifiuto della monarchia. Che cosa c’è di più evocativo, in un Paese fondato sulla separazione dei poteri, di uno slogan che chiama in causa il primo tabù della sua storia? Numeri alla mano, la mobilitazione ha dimensioni eccezionali: oltre 2.500 marce in tutto il territorio federale, un’onda capace di superare i confini. Berlino, Madrid, Roma e Firenze hanno ospitato manifestazioni di solidarietà, a testimonianza di una vicenda che interroga non solo gli Stati Uniti, ma l’idea stessa di democrazia liberale in Occidente. Non è la prima volta: lo scorso giugno, secondo gli organizzatori, furono 5 milioni i partecipanti, 1 milione solo nella capitale.

LA REPLICA DEL PRESIDENTE E LO SCONTRO DI NARRAZIONI
Donald Trump non è apparso scosso dalla “mega mobilitazione”: “non essere un re”, ha ribattuto, liquidando le accuse come caricature di una presidenza che — nelle sue parole — agisce nel perimetro della legge. È qui che si colloca la frattura principale: da un lato chi legge nelle azioni della Casa Bianca un accentramento pericoloso, dall’altro chi vede nella fermezza presidenziale la risposta a emergenze di ordine pubblico, migranti e criminalità. La partita, però, non si gioca solo nelle strade: prosegue sui social media, nelle aule giudiziarie e negli organi elettivi.

# DAI PALCHI ALLA PIAZZA: POLITICI E CELEBRITIES
Democratici e indipendenti hanno cavalcato la protesta, dentro e fuori i cortei. A Washington è salito sul palco Bernie Sanders: “Nel corso della storia di questo Paese, persone hanno combattuto e sono morte per preservare la nostra democrazia. Non permetteremo a Trump o a chiunque altro di portarcela via”. Un messaggio che tenta di trasformare la contestazione in battaglia civile e morale. Anche Hollywood ha alzato la voce. Robert De Niro, in un breve video, ha esortato gli americani a unirsi per “alzare la voce in modo non violento”, ricordando “due secoli e mezzo di democrazia... spesso impegnativa, a volte caotica, sempre essenziale”. Poi l’affondo: “Ora abbiamo un aspirante re che vuole togliercelo: Re Donald I”. In piazza anche Jane Fonda, Kerry Washington, John Legend, Alan Cumming e altri, a certificare quell’alleanza tra cultura liberal e protesta di base che è cifra ricorrente, dall’era del Vietnam a oggi.

# LA CONTROFFENSIVA REPUBBLICANA: ORDINE, IDENTITÀ E SECURITIZZAZIONE
Sul fronte opposto, il Grand old party ha bollato la mobilitazione come “il raduno di chi odia l’America”. È l’altra narrazione della crisi: i sindaci e i governatori repubblicani, dal Kansas al Texas, hanno allertato la Guardia Nazionale, invocando la necessità di “contenere una manifestazione legata ad Antifa”, movimento della sinistra radicale che Trump ha definito gruppo terroristico qualche settimana fa. Dal Lone Star State è arrivata una delle posizioni più dure, mentre anche in Virginia il governatore Glenn Youngkin ha messo in preallarme le truppe. È la logica dell’ordine pubblico che incontra la politica identitaria: il linguaggio del “law and order” tende a presentare la piazza come minaccia e, insieme, come occasione per riaffermare un principio di autorità.

## IL CASO CHICAGO: IL BRACCIO DI FERRO A COLPI DI RICORSI
Proprio sul nodo della presenza dei militari nelle città, si gioca una partita delicatissima a Chicago e in Illinois. Dopo che una corte d’appello federale ha confermato la sospensione della Guardia Nazionale in città e nei dintorni, il presidente americano si è rivolto alla Corte Suprema per ottenere l’autorizzazione a “militarizzare” i centri amministrati dai democratici, come già avvenuto a Washington, Portland e Los Angeles. Nel ricorso presentato venerdì dal dipartimento di Giustizia, il procuratore Generale D. John Sauer ha sostenuto che i soldati sono necessari nell’area di Chicago per “prevenire rischi continui e intollerabili per la vita e la sicurezza” degli agenti federali impegnati nell’offensiva presidenziale contro i migranti. Siamo al cuore di una tensione istituzionale classica: fino a che punto il governo federale può imporre la presenza di militari nelle giurisdizioni locali? E su quale base si bilanciano sicurezza e libertà di manifestare? La dialettica tra Stati e federazione è un cantiere permanente della Repubblica americana. Che oggi torna al centro, amplificata da un clima politico incendiario e da un lessico che spinge sull’acceleratore: “re”, “autoritarismo”, “odiano l’America”. È un linguaggio che polarizza e, per questo, rischia di rendere più difficile quella zona grigia dove spesso si trovano le soluzioni.

UN’ONDA CHE VALICA L’ATLANTICO: PERCHÉ L’EUROPA GUARDA A WASHINGTON
Il fatto che Berlino, Madrid, Roma e Firenze abbiano ospitato manifestazioni di solidarietà racconta molto del tempo che viviamo. Le democrazie europee vedono nella crisi americana uno specchio di ansie domestiche: sicurezza, migrazioni, fiducia nelle istituzioni. Quando migliaia di cartelli con scritto “No kings” sventolano sotto la Porta di Brandeburgo o in piazza del Popolo, l’eco è duplice: solidarietà con chi protesta e monito contro ogni torsione illiberale. È anche un messaggio alla politica europea: l’attrazione/repulsione per “The Donald” è un termometro di un Occidente attraversato da faglie culturali prima che politiche.

# SICUREZZA O SOVRAESPOSIZIONE? IL RISCHIO DELL’ESCALATION
La tentazione di “militarizzare” i centri urbani per rispondere a proteste e tensioni migratorie pone almeno tre interrogativi. Primo: la presenza di soldati nelle strade ha un effetto deterrente o diventa benzina sul fuoco? Secondo: come garantire l’operatività degli agenti federali senza comprimere il diritto costituzionale alla protesta? Terzo: quale equilibrio tra urgenza e legalità, tra efficacia e legittimazione democratica? Gli Stati Uniti hanno strumenti giuridici per affrontare situazioni eccezionali e un sistema di pesi e contrappesi che, almeno in teoria, previene gli abusi. Ma i confini si sfumano quando la politica spinge sull’acceleratore e la piazza ribolle. Se la Corte Suprema dovesse pronunciarsi sull’istanza relativa a Chicago, lo farebbe dentro un contesto esplosivo, dove ogni decisione rischia di alimentare la narrativa opposta. È l’eterna dialettica americana: ordine e libertà, federazione e autonomie, forza dello Stato e diritti civili. La storia insegna che, quando il conflitto si sposta dalle strade ai tribunali, il Paese cerca un arbitro. Ma nessuna sentenza, da sola, ricuce una frattura sociale.

# POLITICA E SIMBOLI: LA POTENZA DEL “NO KINGS”
Lo slogan “No kings” ha una forza che va oltre l’immediatezza della protesta. È una metafora che condensa due secoli e mezzo di storia: la diffidenza verso il potere concentrato, l’orgoglio per le regole, la convinzione che nessuno, nemmeno il presidente, sia sopra la legge. Accusare il capo dell’esecutivo di aspirare al trono equivale a evocare il peccato originale della democrazia americana; rispondere “non essere un re” è un tentativo di neutralizzare l’accusa riportandola sul terreno legale. In mezzo, un’opinione pubblica stanca di crisi permanenti e una politica che tende a trasformare ogni contesa in un referendum morale.

## LA PIAZZA COME TERMOMETRO DEMOCRATICO
Si può difendere la democrazia senza difendersi dalla piazza? La storia degli Stati Uniti suggerisce che le manifestazioni, quando restano non violente, sono un marcatore di vitalità civica. Ma la polarizzazione — alimentata da etichette come “il raduno di chi odia l’America” — rende più difficile distinguere tra dissenso legittimo e minaccia all’ordine. Da qui la necessità di un linguaggio responsabile, capace di riconoscere la complessità: chi protesta chiede garanzie sulle libertà; chi governa rivendica la tutela della sicurezza. Entrambe le istanze, in una democrazia matura, devono trovare posto.

GLI SCENARI: ISTITUZIONI SOTTO STRESS, LEADERSHIP ALLA PROVA
Nei prossimi giorni, molto dipenderà da tre fattori: il perimetro che i tribunali vorranno tracciare rispetto all’uso della Guardia Nazionale nelle città; la capacità di chi guida le piazze di mantenere il profilo non violento invocato da Robert De Niro; la scelta della leadership politica — a partire da Donald Trump — di abbassare i toni o, al contrario, di irrigidire il contenzioso. La vicenda di Chicago è un barometro: se l’istanza sostenuta dal procuratore Generale D. John Sauer dovesse trovare ascolto, potremmo assistere a una nuova stagione di presenza militare nei centri amministrati dai democratici, “come già avvenuto a Washington, Portland e Los Angeles”. Se invece prevarrà la linea della sospensione, sarà la piazza a sentirsi legittimata a insistere, e i governatori repubblicani — dal Kansas al Texas, fino alla Virginia di Glenn Youngkin — a cercare strumenti alternativi per mostrare fermezza. In fondo, la domanda che attraversa il Paese è semplice e insieme vertiginosa: come si difende una democrazia quando la democrazia stessa è il campo di battaglia? Le strade piene di “No kings” e i faldoni depositati in Corte Suprema sono due facce della stessa moneta. Da una parte l’emozione, dall’altra il diritto. Tra i due poli, la politica è chiamata a fare il proprio mestiere: mediare, spiegare, assumersi responsabilità. Perché se la democrazia americana ha retto crisi più gravi, lo ha fatto non grazie a uomini soli al comando, ma a istituzioni robuste e a una cittadinanza che, quando serve, sa ancora farsi sentire.

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